Premessa: al di là del dolore da cui queste pagine scaturiscono, vogliono, sempre e comunque, essere un inno alla vita.
LA
CROSTATA DI MELE
Si
guardò per l’ennesima volta allo specchio. Quando era su di morale si trovava
persino affascinante.
Era
riuscita a dimagrire negli ultimi tempi e poteva finalmente rimettersi la gonna.
Le
gambe erano state il suo orgoglio da giovane e in effetti erano belle anche
adesso.
Ogni
tanto le capitava di sentirsi ancora una donna. I capelli, invece. erano la sua
disperazione. Li pettinò nervosamente cercando di dare loro una sistemazione,
ma sembravano ribellarsi alla spazzola. Alla fine decise di lasciarli così, in
fondo quell’aria disordinata le donava.
Non
si truccava mai, neanche quando stava bene, detestava tutto ciò che non fosse
naturale e conviveva abbastanza serenamene con le prime rughe. Il profumo però
non doveva mai mancare. Ne mise più del solito e ne spruzzò un po’
nell’ingresso e nello studio. Fabrizio
avrebbe dovuto sentirlo subito, appena entrato.
Poi
si guardò intorno, tutto era a posto, perfettamente pulito. La mania
dell’ordine e della pulizia si accentuava quando doveva ricevere qualcuno.
Dette
un’ultima occhiata alla crostata di mele, era riuscita proprio bene, meglio
delle altre volte. Fabrizio l’avrebbe divorata. Alzò la temperatura dei
termosifoni, sentiva freddo. Quell’inverno sembrava non finire mai e in quella
casa vuota si tremava davvero.
Era
diventata troppo grande per lei, ma non aveva mai pensato di trasferirsi; era
un luogo troppo sacro, un tempio che aveva arredato, pezzo per pezzo, dove
aveva consumato tutti i suoi sacrifici esistenziali, che conteneva insomma la
sua vita. Ogni cosa raccontava di lei e
del suo passato. A volte le capitava di parlare con gli oggetti
e
di riscaldarsi al loro calore. Mise l’acqua nel portafiori. Lui ogni volta le
portava un
mazzo
di rose. Si accese una sigaretta, l’ennesima in poco più di mezz’ora. Accese la
lampada ad angolo, mise un vecchio disco di De Gregori e si sedette alla
poltrona. Poteva ora godersi l’attesa. Le piaceva aspettare quando doveva
arrivare Fabrizio o qualcuno dei pochi amici che ancora venivano a trovarla,
ora che non usciva quasi più. Non era innamorata di lui ma provava nei suoi
confronti un sentimento forse più forte dell’amore: lo sentiva suo, era una sua
creatura. In un certo senso era lei che gli aveva dato la vita. Era il suo più
grande successo professionale e umano.
Quando
lo aveva conosciuto, dodici anni prima, era un ragazzo spaurito e smarrito tra
i banchi di scuola. La prima volta che gli si era avvicinata, incoraggiandolo a
rispondere ad una interrogazione, Fabrizio era diventato tutto rosso e non era
riuscito a spiccicare una parola. Lei non aveva insistito, quel ragazzo le era
già entrato nel cuore. Aveva una predilezione per gli alunni timidi ed
impacciati, ma soprattutto un’abilità nel trasformarli in persone sicure e
padrone di sé. In tutti quegli anni era stata più una mamma e una psicologa che un’insegnante. Per questo
era stata tanto amata dai ragazzi. Riusciva ad entrare perfettamente nel loro
mondo. Forse perché lei
stessa
era ancora un’ adolescente. Non aveva mai saputo adattarsi al mondo dei grandi.
Era stata il professor Williams del film ”L’attimo fuggente”, aveva aiutato
tanti giovani a scoprire la loro strada, a valorizzare i loro talenti. Aveva
dato tante lezioni di vita, lei che non aveva mai saputo vivere; aveva insegnato
ad amare la vita, lei che non era stata mai amata dalla vita; aveva insegnato
soprattutto a cogliere l’attimo fuggente,
lei che si era lasciata sfuggire ogni attimo di felicità le si era
presentato.
“Carpe
diem” era una specie di parola d’ordine che la legava ai suoi alunni. Più che
insegnare letteratura e storia, aveva insegnato ad essere felici, lei che era
sempre stata infelice.
Si
alzò per cambiare il disco. Ne mise uno di Dalla e si accese un’altra
sigaretta. Guardò la scrivania. Quante notti insonni aveva trascorso a quel
tavolo, strapieno di libri e di fogli, a scrivere relazioni, a preparare
lezioni, a correggere compiti. La correzione dei temi era per lei il lavoro più
faticoso, le costava un dispendio di energie enorme. Si chiudeva nello studio e
non rispondeva né alla porta né al telefono; interrompeva solo per fumare. Si
metteva davanti ad ogni scritto con la stesse passione e la stessa intensità
con cui un confessore dovrebbe mettersi davanti a un peccatore pentito o uno
psicanalista davanti ad un paziente. Si staccava completamente dal mondo per
penetrare in quello dell’autore del tema, ne coglieva l’anima, i sentimenti,
l’inconscio, e solo alla fine correggeva gli errori di grammatica, quando ormai
aveva imparato quasi a memoria il testo. Così riusciva a mettere fuori il
valore di ogni scritto e la ricchezza interiore di ogni alunno, tanto che al
momento della valutazione, cosa che detestava, difficilmente si sentiva di dare
un voto inferiore alla insufficienza, anche se era pieno di errori. Questo
stimolava i ragazzi, li incoraggiava e li gratificava, ma qualche volta le
provocava grane con i colleghi che
si
scandalizzavano quando sentivano che quelli che per loro valevano 2 o 3
prendevano 7 in italiano. Proprio il suo modo di lavorare, però, l’aveva piano
piano logorata, si era lasciata troppo coinvolgere emotivamente e
affettivamente nel rapporto con gli alunni. Si sentiva svuotata negli ultimi
anni. Poi si era aggiunta la malattia, quella maledetta malattia che l’aveva
costretta a lasciare la scuola e che la stava uccidendo giorno per giorno.
Respirava
con difficoltà e certo non si aiutava con tutte quelle sigarette. Riusciva
ancora a camminare, ma con grande difficoltà. Aveva ormai pochi mesi di vita.
Fabrizio però non lo sapeva ancora. Glielo avrebbe detto quella sera, trovando
le parole giuste, come solo lei sapeva fare. Da quando era andata in pensione,
lui era l’unico ex-alunno che aveva accettato di ricevere. Veniva a trovarla
spesso e si sentiva orgoglioso di avere quell’esclusiva, così come lei era
orgogliosa di lui.
Da
quella prima volta in cui la professoressa gli aveva fatto quasi paura,
Fabrizio era molto cambiato Lei era diventata la sua chiocciola, il suo punto
di riferimento. Lo aveva subito valorizzato apprezzano le sue capacità
espressive nei compiti in classe, lo aveva difeso dalle battute cattive dei
compagni che lo chiamavano il “Rosso” per via dei suoi capelli rossi, e dai
rimproveri dei colleghi secondo cui quel ragazzino “non era portato per la
scuola”. Aveva litigato spesso con loro e aveva dovuto perfino
affrontare
pettegolezzi e malignità. Ma alla fine di quell’anno scolastico sulla pagella
di Fabrizio c’erano ottimi voti. Si erano abbracciati. Lei gli aveva
consigliato qualche libro da leggere durante l’estate e lo aveva incoraggiato a
scrivere: i suoi racconti non erano male. “Ci vediamo a settembre”, le aveva
detto quella assolata mattina di giugno. Ma a settembre non si sarebbero
rivisti tra i banchi di scuola: la “prof” era stata trasferita e un’insegnante
acida e all’antica aveva preso il suo posto. Fabrizio aveva sofferto molto, gli
erano tornati tutti i complessi e le insicurezze. Con la nuova professoressa
era entrato subito in conflitto. A lei non piacevano i suoi temi “fuori
traccia”, non li capiva proprio. Cominciò a non studiare più, nel giro di pochi
mesi il suo profitto era paurosamente calato. Il suo rapporto con i genitori,
da sempre problematico, divenne conflittuale.
Un
giorno raggiunse la “sua prof” nella nuova scuola, nell’ora di ricevimento .
“Ho mollato tutto”, disse, “non me ne frega più niente. Adesso voglio solo
scrivere. Posso venire a trovarla a casa?”. Inutili furono gli sforzi della
donna per dissuaderlo. Si sentiva in parte responsabile e si disse che
l’avrebbe seguito più di prima.
Così,
racconto dopo racconto, Fabrizio era diventato un uomo, un bell’uomo anche,
e
uno scrittore. scriveva sceneggiature e lavorava in una importante televisione
privata.
Lei
era la prima a leggere i suoi scritti, ormai viveva quasi solo per questo. E
Fabrizio aveva anche successo con le donne, lui che per un certo periodo aveva
persino pensato di essere gay. Passava con disinvoltura dall’una all’altra e
quando veniva a trovare la “prof” le raccontava tutte le sue avventure. Finora
non si era mai davvero innamorato: “Il mio unico amore è lei” le diceva sempre,
sorridendo. “Dove la trovo
una
donna come lei? Un giorno la sposerò”. Lei naturalmente non ci aveva mai
creduto. Sapeva che prima o poi sarebbe successo: Fabrizio avrebbe trovato una
ragazza che gli avrebbe fatto perdere la testa e non sarebbe stato più lo
stesso, non le avrebbe portato più i copioni da leggere e lei non gli avrebbe
più preparato la crostata di mele.
Una
donna sconosciuta le avrebbe tolto quell’ultima delle poche gioie che la vita
le aveva dato. Ma ora non voleva pensarci. Fabrizio era ancora molto giovane e immaturo per un rapporto stabile, e poi aveva
la carriera a cui pensare.
Si
accese un’altra sigaretta e andò e andò a spruzzarsi un altro po’ di profumo:
era molto delicato e si sentiva appena.
Il
campanello suonò tre volte. Era lui.
Andò ad aprire. Fabrizio salì di corsa le scale, entrò e l’abbracciò. Lei si
accorse subito che aveva qualcosa di nuovo ed insolito, un’ansia frizzante e un
sorriso che non gli aveva mai visto. Notò che non aveva in mano né le rose né
il copione. Si sedettero nello studio.
“Che
freddo! Ho solo due minuti. Ho fatto solo un salto, la prossima volta mi
fermerò più a lungo”. Fabrizio non le dava il tempo di replicare: le prese le
mani e gliele strinse. “Dovevo venire a dirglielo. Non potevo aspettare. Sono
felice! Si chiama Roberta, è bellissima. Fa la giornalista. Deve conoscerla. Partiamo
domani per Milano. Ho accettato un lavoro in RAI. Roberta viene con me. Appena
torniamo veniamo a trovarla insieme. Credo tra un paio di mesi. Ora devo
proprio andare. Sono felice”, disse di nuovo.
Si
era già alzato e la stava di nuovo abbracciando.
“E…..la
crostata?” disse lei con un filo di voce. A stento si reggeva in piedi. “La
prossima volta, la prossima volta. A presto! A presto, prof!”.
Fabrizio
era già sul pianerottolo.
“Professoressa, carpe diem!” “Carpe
diem” rispose lei .
Ma
Fabrizio non sentì, era già giù per le scale.
Quando
tornò, due mesi dopo con Roberta, suonò tre volte, ma al citofono non rispose
nessuno.
Luce
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